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Di niente, del mare

Ogni tanto viene qualcuno che ha sentito dire che questo è un paese magico, dove si crede ancora nelle cose irreali, che ci sono personaggi magici.
Qui nessuno crede davvero a queste cose.
Solo i bambini: ma non restano bambini per sempre…”

Lo ammetto.
Ho buttato distrattamente questo libro nel mio carrello virtuale solo perché mi mancava un euro per avere le spese di spedizione gratuite.
Era in lizza con altri.
Ma leggere del mio amato mare nel titolo, e vedere che era edito da Sellerio (ho un feticismo tattile per i loro volumi piccoli e morbidi) ha fatto ricadere la mia scelta su di lui.

Poche pagine, che pensavo di leggere al volo.
Ed invece.
Ho centellinato ogni riga.
Consumato grafite per sottolineare e prendere piccoli appunti.
Riempito post-it a tutto più.

Non è un romanzo.
È il lavoro di un cronista che cerca, parla, ci racconta e lascia che si raccontino i due protagonisti.
Nicola, detto Fricina, un giovane uomo dalla mente di bambino che sogna di diventare il comandante di una nave: osserva il mare con indosso un normale completo da uomo al quale ha attaccato toppe e stemmi per farlo passare come una divisa da Ufficiale di Marina. Sogna anche di donne, sempre bellissime.
E poi Angelo, che vive nella sua baracca piena di quelli che crede tesori portati dal mare, lo stesso mare che ogni tanto si gonfia, diventa cattivo e quella baracca la abbatte e la trascina via. Ed ogni volta, lui la ricostruisce e trova altri tesori. Non è affezionato agli oggetti, e nemmeno alle donne.

Sullo sfondo delle due storie non è presente solo il mare.
Ma anche l’indifferenza delle persone che vivono intorno ai protagonisti.
Indifferenti a loro, se non per canzonarli.
Indifferenti al mondo oltre i loro confini.
Indifferenti al mare, che sfruttano ma non amano.
Titolo: Di niente, del mare
Autore: Paolo Taggi
Editore: Sellerio Editore, 73 pagine, 1,29euro

Temistocle da Forlimpopoli 

Temistocle da Forlimpopoli è un omone, alto e piazzato.
Ha l’espressione burbera, e le braccia sempre conserte.
Non si siede mai.
Dietro il banchetto osserva serio chiunque si avvicini ai suoi anelli, per timore che distrattamente caschino in qualche tasca, manica di cappotto o direttamente al dito di ladruncole più o meno improvvisate.
Incute facilmente timore, Temistocle.
Per le grandi sopracciglia, che vivono di vita propria, capaci di tramutarlo in mezzo secondo nella più terribile delle maschere.
E quella cicatrice.
Quante volte l’ho osservata, quante gli domando mentre siamo soli con due bicchierini di caffè fra le dita e quante balle racconta: incidente in motocicletta, ferita di guerra, una lince inalberata, un labirinto di specchi, un maldestro apache in cerca di scalpo, una stella caduta troppo vicina.
Da sopra lo zigomo sinistro, crolla fino alla mandibola e si rialza verso il mento, adagiandosi a fine corsa nella piega del labbro inferiore.
Non ne parlava con la stessa timidezza che nasconde il suo cognome.
Cambia discorso, osserva i miei quadri.
“Sai cosa diceva Magritte?
Il mondo è così totalmente e meravigliosamente privo di senso che riuscire ad essere felici non è fortuna, è arte allo stato puro.
Sabato prendo la pensione, e porto Mauro a mangiare il pesce: è sempre felice in quel ristorante in riva al mare.
E tu, sei felice?”
Sorrido, ed invento frottole pari alle sue.
Lui crea i suoi gioielli nonostante le mani tremanti, ed io dipingo senza sosta: due modi e due mondi lontani, che hanno trovato da qualche parte un gancio che li tiene sospesi in quella sorta di brivido infantile che fa sudar freddo dalla paura ma che fa gridare “ancora ancora!!!”.
Quando scova una pietra blu particolarmente bella gira, piega, annoda e mi regala un anello.
Perché io la sera a casa dipingo il mare: recupero il cartone leggero dalle scatole delle crostatine ed onde e spiaggia si confondono tra le pennellate.
Ogni due o tre giorni regalo a Temistocle queste cartoline: diventano collezione, svago ed occhi al futuro per il suo compagno dalla mente ormai tenera.
Lo scoppio di un bicchiere a terra nel bar sotto i portici: succede spesso, e tutti noi bancarellai nemmeno scattiamo più al fragore.
Temistocle ogni volta affonda sempre nel colletto della maglia in pile, fino al naso, ma senza riuscire a coprire gli occhi.
– È stato un vetro, vero?
– Cosa?
– … la cicatrice…
– Il vetro non ha colpa, e nemmeno Lui.

E racconta tutto quello che si era tenuto dentro per anni.
Racconta e non piange più.
Racconta e le sue spalle si fanno aperte e leggere.
Di quell’amore nato per caso su un treno.
Delle difficoltà, delle famiglie sparite, della serenità conquistata.
Poi delle malattie improvvise come quel taglio ricamato sul viso da chi lo ama, ma non riesce più a capire cosa sia l’amore.
E Temistocle è diventato vittima e roccia in quella coppia.
Le sue grandi braccia consolano ed incassano i colpi, addolcendoli con quel sorriso che riserva a pochi perché lo custodiscano senza mostrarlo ad altri, per evitare che qualcuno possa far strale del suo cuore già sfinito.
Mi lascia il suo banchetto, come capita quando è stanco: lo chiude con cura, lo porta fino al mio pianerottolo e scappa sorridendo.
E durante la cena di artisti mancati ed affamati, ogni tanto mi torna in mente lui: tra un boccone di cotoletta ed un colpo di tosse per il troppo aceto nell’insalata penso a quei due.
A come Mauro stasera sarà felice, ed accarezzerà con dolcezza quella cicatrice sillabando senza voce s-c-u-s-a-m-i: ma non riuscirà a finirlo, perché l’omone abbasserà piano la testa, afferrerà con cura il pollice tra le labbra, succhiandolo piano, accarezzandolo con la lingua fino a sentir vibrare leggero il cuore del suo amato.

Mi sveglio presto anche quando non devo lavorare.
Chiudo la porta per non svegliare gli accampati in salone, accendo la tv e la macchina del caffè.
È strana la mia cucina: una veranda riadattata, sempre fredda, anche in estate.
Rubo un po’ di calore alla tazzina.
“Fregene: identificati i cadaveri dei due uomini ritrovati sulla battigia…”
Stranamente sorrido.
Temistocle in quella fotografia non ha ancora la cicatrice.
Ed anche Mauro è bello, sereno, con gli occhi che brillano e sulla gola il tatuaggio dell’onda.
Un gesto automatico: apro il banchetto portatile, e sapevo già che avrei trovato qualcosa per me.
Leggo.
Sorrido.
Chiudo gli occhi.
Era una roccia l’omone.
Lo ha legato a sé.
Ha affondato entrambi.
Per risalire liberi a scorgere un altro gancio al quale appendersi tenacemente.
E cercare e trovare brividi di felicità nuova.
Altrove.
… ancora ancora!!!

La foga del lettore

​Sono una lettrice assatanata, da sempre.

Guardo le fotografie nei gruppi di lettura.

E vedo gente che per una settimana di vacanza si porta dietro dai cinque ai dodici romanzi.

Concordo sul fatto che liberi dagli impegni lavorativi si legga di più.

Ma ogni tanto, guardatelo il mare.

Osservate la stanza dove state.

Parlate una volta tanto di sane boiate, che male non fa.

Invece di saltare le pagine per scoprire il nome dell’assassino, imparate quelli dei vicini di ombrellone.

Sedetevi poco più in la della battigia, e raccogliete le telline.

Passeggiate e guardate il mondo dalla montagna, senza fotografarlo per mostrarlo ad altri: per una volta nutrite la vostra anima con egoismo.

E se le vacanze non ci sono, conoscete meglio la città in cui abitate: dal bar dove non siete mai entrati per un cappuccino, al flusso irregolare di una fontanella in ghisa, a guardare dentro il pesante portone in legno che vedete aperto per la prima volta.

Accarezzate qualcuno, invece di occupar sempre le mani con delle pagine.

Non trinceratevi dietro il profumo dei libri, che ormai come immagine e concetto è inflazionato fino allo stucchevole.

Immergetevi nei profumi nuovi: quello del mare, che riempie i polmoni, quello dei fiori carnosi e dai colori saturi, quello appiccicoso e rassicurante dei bomboloni appena fritti.

E poi, si: leggete.

Provate la gioia di centellinare.

Poche pagine nella controra, o la sera prima di addormentarvi.

Rallentate il bulimico affanno del volere tutto e subito anche nella lettura.

Scegliete un solo romanzo da portare con voi.

E non dite “troppo diffiiiciiileee!!!”, come quando vi chiedono il titolo del vostro libro preferito.

È più semplice di quanto crediate.

Se la scelta si rivelasse una brutta lettura, well: sarà solo una pietra spostata dal vostro cammino.

E come diceva qualcuno più intelligente di me, sta a voi usarla per alzare un muro o costruire un ponte.

Non mi importa…

Non mi interessa della pioggia che sta scendendo.
Della mia febbre, si: ancora lei.
E nemmeno del lavoro che ci attenderà oggi, pesante ed appiccicoso: suicidio che va e viene ogni giorno, come uno yo-yo tra le dita distratte di un bimbo grasso con le unghie sporche.
Ho freddo stamattina: resto a letto, benedicendo il giorno in cui abbiamo piazzato la moka elettrica sul comodino.
Ti sento respirare.
Il ritmo è tranquillo, come se oggi fosse domenica.
I segni bruciano strusciando contro le lenzuola: bruciano i miei ed i tuoi, ma quella notte di carne pura diventa un ricordo lontanissimo quando sento il tuo profumo.
Sai di acqua di mare, di limone ed anche un po’ della cannella del mio dentifricio, che di sicuro ti è rimasto impigliato tra i baffi.
Non mi interessa della pioggia, della febbre, del lavoro.
Ti prendo una mano, la chiudo nella mia, poggiandomela sulla pancia.
Stringi le dita.
Ho bisogno di te, oggi e sempre.
Il resto è sottofondo evanescente, come il vapore morbido dalla caffettiera…

(Neve Snowhip, io,  ottobre 2014)

 

 

Coppialetto

Digressione

Seduta sulle pietre algide guardo le onde. Mi e’ sempre piaciuto il mare in giorni cosi’ freddi: la spuma gonfia che picchia gli scogli, un sasso liscio che vedo gia’ sulla tua scrivania, le labbra riarse dal freddo e dal … Continua a leggere