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Sette ragazze imperdonabili

Pensavo fosse difficile descrivere questo lavoro.
Mentre lo sfogliavo, appena arrivato, continuavo a chiedermi cosa fosse esattamente.
Il segreto forse sta proprio tutto qui: non porsi domande, e lasciarsi stupire e guidare.
Emily Dickinson, Giovanna d’Arco, Antonia Pozzi, Cristina Campo, Etty Hillesum, Sylvia Plath, Marina Cvetaeva sono le sette ragazze imperdonabili: impazienti, radicali, poco accomodanti, tremendamente oneste ed anche piuttosto antipatiche e “ognuna di loro ha condotto con onestà e determinazione la propria ricerca, spesso nella solitudine, aprendo un varco nel tempo…”.
Sette racconti, tutti in prima persona: condensano in poche ma preziose pagine una vita intera, tra picchi ed orridi, stanchezza e voglia di orizzonti nuovi, occhi che si perdono fra le nuvole e dita che affondano nella terra.
Sette poesie dell’autrice: ogni parola, ogni virgola, ogni sguardo… tutto pesa come stille di mercurio dolce, che cadono dentro di colpo con la morbidezza e la tenacia di chi non se ne andrà.
Sette collage: riassumono tutto quel che viene scritto, dai visi ai fiori, passando dalla speranza alla concretezza.
Tutto per lasciare un segno.
E qui arriva l’ottava ragazza, Mary Delany: il suo racconto è l’unico in terza persona, ed è quello che condensa, riassume e conferisce slancio a tutto il libro.
Maria Antonietta è una donna di cultura e sensibilità così simbiotiche e profonde da intrecciarsi saldamente, come radici che si tengono per mano.
Maria Antonietta è una bambina che gioca con la sua scatola di latta colma di ritagli, che sistema e riposiziona con cura sulle pagine del suo quaderno, franmezzando i fogli in cui la scrittura si fa fitta di sogni e spigoli, valore e determinazione. Che ogni tanto si alza, ed accarezza i fiori. E dopo petali e foglie le sue dita accarezzano marmi e statuine di vetro trasparenti e delicate.
Maria Antonietta è un vaso colmo di rami di lunaria dai frutti secchi e silenziosi, ma che negli anni diventano sempre più argentati e luminosi: come occhi mai stanchi di mordere nuova meraviglia, e di usarla per regalar luce tutto intorno…

Quale segreto vai cercando?

“Perché studi così tanto?
Quale segreto vai cercando?
La vita te lo rivelerà presto.
Io so già tutto, senza leggere o scrivere.
Poco tempo fa, forse solo qualche giorno fa, ero una ragazza che camminava in un mondo di colori, di forme chiare e tangibili.
Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura era per me un gioco.
Se tu sapessi com’è terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo illuminasse la terra!
Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio.
È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi.
Le mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente.
Io sono diventata vecchia in pochi istanti e ora tutto è insipido e piatto.
So che dietro non c’è niente; se ci fosse qualcosa lo vedrei…”

(Lettera ad Alejandro Gomez Arias – Frida Kahlo, Settembre 1926)

Le belle persone

“Ho sempre pensato che le “belle” persone non siano né facili né scontate.
Le belle persone non sono nemmeno per tutti, perchè non si fanno attraversare da tutti e nemmeno tutti sono in grado di farlo.
Le immagino come una rosa.
Non le puoi raggiungere sentendo solo il profumo o ammirandone i colori.
Non le conosceresti mai a fondo.
Le belle persone spesso hanno passati ingombranti, la pelle graffiata.
Per arrivare al cuore devi passare dalle spine.
Graffiarti, mischiare il sangue, asciugare le lacrime che bagnano il cuore, scambiarci la pelle, l’odore.
Sono infatti convinto che le belle persone non profumano.
Le belle persone lasciano segni.
Graffiano…”

(Pedro Almodóvar – scatto di Nico Bustos)

Disinteresse…

“Non mi piaccio.
Non mi sono mai piaciuto, neanche fisicamente.
Non mi piaccio quando mi osservo allo specchio: questo nasino corto, questa bocca cicciuta.
A me piacciono le bocche senza labbra e i nasi lunghi, aquilini.
Io sono carino e un uomo non dev’esser carino.
Più ci penso, più mi chiedo come sia possibile che una faccia simile mi dia da mangiare.
Che la gente ci veda l’espressione di un’epoca, anzi il simbolo di un uomo ambiguo, confuso, egoista, immaturo?
Sono tutto ciò, ed eccoci al peggio: non mi piaccio dentro.
Tanto per dirne una, sono ignorante. Non ho mai tentato di studiare, non mi sono mai detto leggiamo-quel-libro, andiamo-in-quel museo, ascoltiamo-quel-concerto, può-essere-un-godimento.
La cultura per molti è un godimento.
Per me è un’impossibilità fisica e spirituale.
Ma lo sai che mi stanco a leggere?
Non approfondisco mai un problema.
Vorrei, lo giuro, vorrei: perché è così brutto sentirsi a disagio tra la gente informata.
Resto sempre alla finestra, a guardare.
Mi spiace che tanti soffrano la fame, l’ho sofferta anch’io e so che cosa significa, ma non vado certo in giro a battermi per i poveri.
Se mi si piglia di contropiede, rispondo: «Ovvio che sono socialista!».
Però non ho mai capito bene in cosa consista questo socialismo e non faccio alcuno sforzo per capirlo.
Molti credono ch’io sappia le cose.
A volte le so, vero, ma nella maniera in cui un animale fiuta il cibo e la strada che conduce all’abbeveraggio.
D’istinto, ecco.
Guarda il mio amore per i quadri: non nasce da una cultura pittorica, ma da un istinto.
Quando li compro, non sbaglio mai.
Dal mio disinteresse per tutto e per tutti mi sveglio esclusivamente per parlar di me stesso…”

(Marcello Mastroianni)

La scuola dell’Amore

“Il tuo amore mi ha insegnato a essere triste,
ed io, da secoli, cercavo una donna che mi rendesse triste
una donna tra le cui braccia ho potuto piangere come un passero
una donna che avrebbe raccolto i miei pezzi, i miei frammenti di cristallo.

Il tuo amore, signora, mi ha spinto ad adottare cattive abitudini
a cercare di prevedere il futuro, sul fondo della mia tazza, migliaia di volte nella notte
a provare i rimedi dei guaritori e a bussare alla porta dei veggenti,
mi ha spinto ad uscire di casa per pettinare i marciapiedi,
e inseguire il tuo viso ovunque, sotto la pioggia,
nelle luci delle auto, negli abiti sconosciuti,
e a rincorrere il tuo spettro
nei manifesti della pubblicità,
a raccogliere dai tuoi occhi milioni di stelle.
Il tuo amore mi ha insegnato a girovagare, per ore,
alla ricerca di una chioma selvaggia
invidiata da tutti gli zingari,
di un volto, di una voce
che sono tutti i volti e tutte le voci…

Il tuo amore, signora, mi ha introdotto nelle città della tristezza
e prima del tuo amore non sapevo cosa fosse la tristezza,
non ho mai saputo che le lacrime sono l’Umano
e che l’Umano, senza tristezza non è che la parvenza di un essere umano.

Il tuo amore mi ha insegnato a comportarmi da bambino
a disegnare il tuo viso col gesso sui muri,
sulle vele dei pescherecci,
sulle campane della chiesa, sui crocifissi.
Il tuo amore mi ha insegnato che può cambiare la mappa del tempo,
mi ha permesso di capire che quando si ama, la terra smette di girare
il tuo amore mi ha insegnato cose che non avrei mai considerato.
Ho letto fiabe per bambini,
sono entrato nei palazzi dei re Geni,
ho sognato di sposare la figlia del Sultano,
i cui occhi sono più blu dell’acqua di una laguna,
le cui labbra sono più seducenti dei fiori di melograno.
Ho sognato di portarla via come un cavaliere,
di offrirle collane di perle e corallo.
Il tuo amore mi ha insegnato cos’è il delirio,
mi ha insegnato come la vita si consuma
senza che giunga la figlia del sultano.

Il tuo amore mi ha insegnato
come amarti in tutte le cose,
negli alberi nudi, nelle foglie ingiallite e secche,
in un giorno piovoso, nelle tempeste,
nel più piccolo Caffè in cui beviamo,
alla sera, il nostro caffè nero.
Il tuo amore mi ha insegnato
a cercare rifugio in alberghi senza nome,
in chiese senza nome,
in caffè senza nome.
Il tuo amore mi ha insegnato
come la notte può ingrandire
il dolore degli stranieri;
mi ha insegnato a contemplare Beirut,
una donna, tiranna e tentatrice,
una donna che indossa ogni sera
i più begli abiti che possiede
e spruzza profumo sul suo seno,
per il pescatore e i principi.
Il tuo amore mi ha insegnato
a piangere senza ragione,
mi ha insegnato gli incubi,
come un ragazzo con i piedi amputati
tra le strade di Rouche e Hamra.

Il tuo amore mi ha insegnato a essere triste,
ed io, da secoli, cercavo una donna che mi rendesse triste,
una donna tra le cui braccia ho potuto piangere come un passero,
una donna che avrebbe raccolto i miei pezzi, i miei frammenti di cristallo…”

(Nizar Qabbani – La scuola dell’Amore, da Opere selvagge: 1970
Scatto: Helmut Newton)