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Il piccolo Adolf non aveva le ciglia

Helga Schneider per me è stata una piacevole scoperta.
E dopo aver letto voracemente quest’opera penso che non farò trascorrere molto tempo per procurarmi gli altri scritti, lasciando gli occhi scorrere tra l’orrore dei suoi ricordi e la meraviglia dello stile.

L’autrice ha avuto una vita densa, particolare, terribile ma non ha mai abbandonato la speranza, continuando a guardare oltre.

Amo la vita malgrado i duri colpi che mi ha inferto e che, a volte, sembravano volermi annientare.
Non la cambierei con nessun’altra e, anzi, provo nei suoi confronti una gratitudine profonda e devota per quello che mi ha dato.

Ed è proprio questo a riversarsi nelle pagine del romanzo.
La vita dura, agghiacciante nella Germania nazista, soprattutto per chi osava anche solo accennare mezza frase sbagliata contro le scelte hitleriane.
Lo stile asciutto ed essenziale, che non cerca la lacrima facile, riesce a sbattere in faccia al lettore il famigerato programma T4 che il Regime portava avanti di gran carriera.
In cosa consisteva?
Nella banalità del male.
La Nazione doveva progredire, espandersi, arricchirsi. Per fare tutto questo e procedere speditamente era necessario eliminare le zavorre, i pesi morti.
Vecchi, malati, handicappati fisici e mentali, bambini nati deformi, ma anche gli stessi combattenti che al fronte avevano perso una gamba o un braccio: furono sterminati a migliaia.
Ai familiari si facevano firmare alcune carte: il congiunto con uno dei problemi sopra elencati veniva trasferito in una struttura idonea per essere curato al meglio. Si garantivano medicine e pasti nutrienti, in castelli posizionati in zone di montagna, con la scusa di sottrarli all’inquinamento ed ai disagi della città.
In realtà venivano dapprima usati per sperimentare i veleni che poi sarebbero stati usati nei campi di concentramento, una volta esaurito il loro compito da cavie li aspettavano i forni crematori.
Simile trattamento era riservato anche a coloro che, in qualche modo, davano noia ad alcuni esponenti del regime: venivano dichiarati insani di mente e rinchiusi in queste strutture.

Sarà Grete, la protagonista, a guidarci in questa sorta di dedalo vorticoso.
Dalle opposte idee del genitori (tanto il padre è entusiasta del Leader, quanto la madre lo detesta), al suo lavoro come trascrittrice di interrogatori alla Gestapo (dove ancora non aveva capito cosa stesse accadendo, per lei gli interrogati erano sovversivi e basta), fino all’incontro con l’ufficiale delle SS più bello di tutta Berlino. E l’incredulità nello scoprire che si è innamorato proprio di lei.

Alla fine mi hanno consegnato il certificato di “idoneità razziale e biologica alla procreazione”. Che gioia! Gregor era orgoglioso, ed anche papà. Solo mamma ha rovinato l’incanto dicendo che il certificato sembrava quello di una premiata mucca svizzera…

Da qui la ragazza si immagina una nuova vita, fatta di privilegi destinati alla posizione del fidanzato, ma anche di lusso spropositato, vista la ricchezza della famiglia di lui. Tutto questo la porta a vivere come in una sorta di realtà parallela, dove sembra non accorgersi di come stia tentando di sopravvivere la maggior parte dei berlinesi: la benzina è ormai introvabile, così come il cibo ed il carbone per riscaldare case, scuole ed ospedali.
Fino a quando l’idillio si spezza.
Non in due tronconi netti.
Ad un certo punto del racconto manda in frantumi un vaso. Ed io prendo questo come esempio: con migliaia di schegge si spargono ovunque.
Ed è allora che Grete apre davvero gli occhi sul lavoro del marito, toccando con le sue stesse mani tutta quell’oscenità.
Da qui inizia la sua discesa: ripida, sdrucciolevole e senza appigli per poter risalire.

Ma lascio a voi il piacere di scoprire cosa succederà e Grete, alla sua famiglia ed alla sua più cara amica.

La lettura è resa decisamente piacevole e mai noiosa dal vezzo dell’autrice di aver mescolato le carte.
Si fanno continui tuffi tra passato e presente: la voce narrante è infatti quella di una donna alla vigilia del suo ottantesimo compleanno. Inizia a ricordare ogni particolare sfogliando un album di fotografie, che ben presto vengono accantonate tanto la memoria è ancora incisa.
Si va avanti ed indietro nel tempo, accompagnati anche dalle pagine del diario che la protagonista scrive all’inizio del suo fidanzamento: un documento importante per toccare il mutare dei suoi pensieri.
Anche se, ad un certo punto, conosciamo il finale di questa avventura, il riportarci di colpo, nuovamente, a tanti anni prima non è fastidioso, anzi: somma inediti piccoli e grandi particolari, punti di vista, sfumature…insomma, tutti elementi che rendono davvero difficile riporre il libro per continuare a leggerlo in un secondo momento.

Titolo: Il piccolo Adolf non aveva le ciglia
Autore: Helga Schneider
Ed: Einaudi, 194 pagine, 10 euro.

Da Auschwitz a oggi: viaggio tra i libri alla difficile ricerca di una memoria condivisa.

Il clamoroso furto dell’insegna in ferro battuto “Arbeit macht frei” sul cancello d’ingresso del campo di sterminio nazista di Auschwitz Birkenau, messo a segno il 18 dicembre, assume il significato di un apologo feroce della memoria delle vittime dell’Olocausto. Gli autori sono stati individuati e sembrano essere cinque ladri professionisti che avrebbero agito su commissione di un neonazista di nazionalità svedese.
L’atroce dileggio tornerà, dopo il necessario restauro, a campeggiare sull’ingresso del campo, ma è difficile sfuggire alla carica simbolica dello sfregio recato. Quasi che la memoria, anche della più alta delle ingiurie all’umanità, si possa comunque cancellare con un gesto. Come se ciò che avvenne in quel luogo ingrato nel sud della Polonia si possa annullare facendo scomparire uno dei reperti più celebri.
Pare impossibile, contro ragione: ma non è contro ragione ciò che avvenne in quel campo?
La coincidenza dell’atto vandalico con il decimo anniversario della giornata della memoria ci riconduce dunque ai temi sconfinati del significato della memoria, della sua negazione e dell’apparente antinomia tra memoria e oblìo.
Proprio la cesura di Auschwitz, scrive Antonella Tarpino in Geografie della memoria (Piccola Biblioteca Einaudi) “ripropone il dilemma se l’oblìo, preservando gli uomini dal potere nefasto dei ricordi più drammatici, non militi un po’ anche dalla parte della vita”.
Occorre allora evitare lo sconfinamento in campi troppo estesi e circoscrivere la Memoria di cui stiamo parlando qui e ora. Il 27 gennaio è il giorno che fu scelto dieci anni fa dal Parlamento italiano per ricordare l’Olocausto. Una decisione frutto di un compromesso che disinnescò molte tensioni. Nel dibattito entrarono altre date: il 12 giugno, compleanno di Anna Frank, il 16 ottobre, in ricordo del giorno del 1943 quando venne compiuta la razzìa nel ghetto con la deportazione di 1022 ebrei romani. Il 27 gennaio fu una data più europea e meno italiana e servì ad attenuare la portata della scelta rispetto ad atti compiuti sul nostro territorio.
Eppure, sostiene con fondatezza lo storico Giovanni De Luna “una memoria collettiva diventa ufficiale quando a stabilire i confini del patto su cui si fonda interviene la sanzione dello Stato, quando la Memoria si incontra con la Politica e le istituzioni… perché quel patto risulti credibile deve fondarsi sulla ricerca della verità” (da “Le ragioni di un decennio” , Storie della Feltrinelli).
Ecco dunque ciò che si celebra il prossimo 27 gennaio. Una memoria collettiva, una memoria ufficiale. Può parere insufficiente; peggio, retorico. Tale memoria resta tuttavia il solo baluardo contro coloro che in nome di altre memorie vorrebbero cancellare milioni di vittime innocenti, migliaia di immagini sconvolgenti, miliardi di parole, negandone l’esistenza alla radice. Un pericolo che non è certo venuto meno, soprattutto ora che si sta spegnendo la voce dei protagonisti di quel calvario e con essi la coscienza di nuove sempre possibili sopraffazioni.
L’imponente e incessante produzione bibliografica su quegli anni, di cui diamo in allegato una sintesi assai parziale che si rinnova e si accresce di anno in anno, è autentica fonte di gioia per le coscienze democratiche. I libri, di oggi come di ieri, siano i benvenuti, per l’eternità. Essi rappresentano l’unico antidoto contro le false coscienze, i non ricordo, l’indifferenza. Essi ci raccontano dello sforzo di tanti intellettuali, scrittori e più semplicemente uomini e donne di buona volontà di dare un futuro alla memoria collettiva, perché non sia vittima di processi di stratificazione per cui un gesto nasconde l’altro, le atrocità degli uni cancellano quelle degli altri. Se la storia dei perseguitati e dei vinti viene dimenticata, non resta che quella dei carnefici di ogni tempo.
Il furto del concetto che reca in sè Auschwitz può avvenire in tanti modi e la profanazione dell’insegna non è purtroppo il peggiore. Se l’Olocausto va ricordato è perché il genocidio assunse caratteri di sistematicità tali da non avere paragoni, nemmeno in una secolare storia carica di efferatezze. La memoria collettiva assume allora le sembianze di “dovere umano reso assoluto e imperativo dopo lo sterminio, ma insieme anche dovere muto, senza parola” (Antonella Tarpino, Geografie della memoria) per l’incapacità di dare un nome allo sterminio, un evento che via via si chiama Olocausto, genocidio, soluzione finale, Auschwitz e ha trovato nell’espressione Shoah, nella sua essenza di parola semanticamente incerta, la definizione più congrua, più dicibile dell’indicibile.
Senza questo dovere di ricordo e di ricerca della verità, anche il perdono diventa esercizio vano perché monco del pentimento e mai si traduce in pace sociale, in vera elaborazione collettiva del lutto. Ed è forse ciò che rende incompiuto il viaggio della nostra Repubblica, anche 65 anni dopo quegli eventi. Un itinerario mai percorso fino in fondo che ha lasciato il nostro Paese in una situazione di permanente fragilità democratica anche di fronte a eventi infinitamente minori e comunque per noi nefasti come gli anni del terrorismo. Pure sul quel versante, come dimostra l’ampia pubblicistica d’oggi dei figli che raccontano dei padri (Ambrosoli, Calabresi,Tobagi, Negri), troppe pagine restano aperte. Ma sono ancora una volta le pagine scritte ad assumere con coraggio e sincerità l’impegno di narrare e di riflettere.
Benedetti siano i libri e chi li scrive.

Fonte: Il Sole 24 Ore.

“Il diario di Anna Frank non deve essere letto!”

Toccante, forte ed educativo.
Questo da sempre è il “Diario di Anna Frank”, letto in tutte le scuole del mondo affinché i bimbi conoscano l’oscenità dell’Olocausto.
Ma a qualcuno non piace. Succede vicino a Monza, dove il deputato leghista Paolo Grimoldi protesta perché in una scuola elementare è stata letta le versione integrale dove Anna Frank descrive le sue parti intime. Così è scattata l’interrogazione al ministero.
Troppo oscena la descrizione intima per il pubblico di bimbi così piccoli.
Forse ancor più del patimento e delle sofferenze di Anna Frank, secondo il deputato della Lega Nord. Immediata la replica della scuola, la Lina Mandelli di Usmate Velate (Monza-Brianza). ”Credo che il ministro dell’Istruzione abbia cose più importanti di cui occuparsi”, ha detto Claudio Redaelli, dirigente vicario dell’Istituto.
Secondo il dirigente le pagine a cui si riferisce il deputato sono “descrizioni in termini talmente ingenui, come logico attendersi da una dodicenne degli anni ’40, da non destare, soprattutto se mediata dall’intervento dell’insegnante, particolare turbamento in bambini del ventunesimo secolo che in Tv vedono e sentono di peggio”. “Io sono stato interpellato dagli stessi genitori della scuola per ben tre volte – ha detto il leghista Grimoldi – la prima volta ho riposto che c’è l’autonomia scolastica, la seconda che forse c’è stato un abuso dell’autonomia, la terza mi sono sentito in dovere di fare questa interrogazione: credo che quelle pagine per bambini di 9 anni si possano definire hard”.

Fonte: TGCom.

Io mi chiedo perché certa gente non si tappi la bocca invece di sparare certe castronerie…